In via generale le associazioni sono libere di stabilire i requisiti di ammissione al proprio sodalizio, così come potrebbero anche introdurre categorie di soci differenti a cui far corrispondere diritti differenti. Ciò è possibile ma implica nel primo caso l’impossibilità di qualificarsi come associazione di promozione sociale e nel secondo la decadenza dalle agevolazioni fiscali.
Per quale motivo dobbiamo attribuire ai soci gli stessi diritti?
Come anticipato non si tratta di un obbligo giuridico ma di un onere per accedere alle agevolazioni fiscali contemplate dall’articolo 148, terzo comma e seguenti, del Testo Unico delle imposte sui redditi e per accedere alle medesime agevolazioni ai fini IVA, ai sensi dell’articolo 4 del DPR IVA.
Questo perché le associazioni che sono interessate a non versare le imposte dirette e l’IVA sui corrispettivi specifici versati dai soci per partecipare ad attività inerenti ai fini istituzionali (es: corso di scrittura creativa, quota di iscrizione al campionato di calcetto), devono implementare nel proprio statuto anche la “disciplina uniforme del rapporto associativo”, così come il principio di una testa, un voto.
Per quale motivo le associazioni di promozione sociale non possono prevedere forme di discriminazione in accesso? Cosa significa discriminare?
Il principio di non discriminazione era già stato affermato nella Legge 383/2000 ai sensi della quale
“Non costituiscono altresì associazioni di promozione sociale i circoli privati e le associazioni comunque denominate che dispongono limitazioni con riferimento alle condizioni economiche e discriminazioni di qualsiasi natura in relazione all'ammissione degli associati o prevedono il diritto di trasferimento, a qualsiasi titolo, della quota associativa o che, infine, collegano, in qualsiasi forma, la partecipazione sociale alla titolarità di azioni o quote di natura patrimoniale”.
Tale vincolo viene riaffermato dal Codice del Terzo Settore (art. 35 del DLgs 117/2017) in cui viene riportata la medesima formulazione.
Sul tema è stata presentata una richiesta di parere al Ministero del Lavoro che ha fornito, con la Nota n. 1309 del 06/02/2019 alla cui lettura integrale si rinvia, importanti elementi di riflessione.
Il Ministero conferma che è possibile prevedere requisiti di ammissione, aspetto che deve essere regolamentato all’interno dello statuto (art. 21 del Codice del Terzo Settore) e che non esiste un diritto giuridicamente tutelato ad essere ammessi all’interno di un’associazione. È necessario però che i requisiti di ammissione non siano discriminatori ma siano "coerenti con le finalità perseguite e l'attività di interesse generale svolta" così da rendere possibile una effettiva "partecipazione".
Deriva da qui la contrarietà alle disposizioni codicistiche di clausole che vietino tout court l'ammissione di nuovi associati o di clausole che permettano a chiunque, indiscriminatamente, di essere ammessi oppure ancora di clausole che rimettano al mero arbitrio degli amministratori le decisioni in merito all'ammissione di nuovi associati.
Entrando nel merito, il Ministero esamina la legittimità di clausole che prevedano come requisito di ammissione:
a)la maggiore età, con riferimento alla quale il Ministero ritiene che sia ammissibile solo per attività che presentano una intrinseca pericolosità come le attività di protezione civile;
b)un determinato titolo di studio, clausola qualificata sempre come discriminatoria;
c) la cittadinanza italiana, che in linea di massima si ritiene che non possa che configurarsi come discriminatoria;
d)non avere commesso reati, condizione che potrebbe essere ammessa con riferimento a specifici reati per propria natura incompatibili con le finalità associative e/o con le attività svolte dall'associazione di cui trattasi. Ad esempio, chi opera per la legalità verosimilmente dovrà escludere la possibilità di aderire a soggetti condannati per associazione di stampo mafioso;
e)non aver assunto nei confronti dell'associazione posizioni diffamatorie individuali o all'interno di gruppi, requisito che ritiene lecito atteso che un'associazione, nel rispetto dei propri iscritti, può pretendere dai soci o aspiranti tali una condotta "pubblica" in linea con i valori e le finalità che caratterizzano l'associazione stessa.
Arsea Comunica n. 79 del 11/10/2019
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